Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della Storia

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Recensione a cura di Grazia Dalla Valle

Questo di Guido Crainz è il lavoro importante di uno storico che intende affrontare la sfida antieuropea di nazionalisti e sovranisti, che agiscono anche sul terreno della cultura, e che si basano su di un uso politico della storia. Manca purtroppo una opinione pubblica europea, auspicata dal filosofo Habermas, capace di porre freni alle derive e accelerare i processi positivi, e per questo l’attacco all’Europa da parte dei sovranisti sostenuto anche nella scuola da un massiccio e deformato “uso politico della storia” non ha trovato risposte adeguate.

Ma è proprio dalla ricerca storica e nell’insegnamento della storia a scuola che si può trovare, secondo Crainz, una alternativa a quelle narrazioni infondate capaci di legittimare politiche aggressive basate sulle diverse memorie, spesso incompatibili, che dividono i paesi europei Infatti, almeno dal 2005, passata quella che viene definita “magnifica illusione”, l’euforia che seguì il 1989, si evidenzia che ci sono due parti di Europa eredi di due diversi Novecento. “Nella esperienza dei padri fondatori infatti la costruzione europea era stata la via per superare le tragedie dei nazionalismi mentre i paesi postcomunisti uscivano da quarant’anni di dominazione sovietica ammantata di internazionalismo.” Al rifiuto dei regimi oppressivi nei paesi dell’Est si intrecciava l’aspirazione ad un benessere di cui l’Occidente era simbolo. Ma in Occidente il welfare si era affermato nel dopoguerra insieme con la democrazia, e la democrazia si era consolidata nel corso del miracolo economico, ad Est la fine dei regimi comunisti si accompagnò ad una liberalizzazione selvaggia, alla progressiva eliminazione delle protezioni sociali, alla disoccupazione, alla fuga dei giovani; nasceva nel tempo un “panico demografico” che ingigantiva le paure di imminenti immigrazioni da Africa e Medio Oriente, alimentate dalla propaganda sovranista sulla “sostituzione etnica”. Dalla delusione derivavano rancore e perdita di identità, che potevano portare nella Germania dell’Est alla Ostalgie, rimpianto delle protezioni sociali del passato, oppure alla formazione di movimenti politici di estrema destra come “Alternative fur Deutschland”. La scelta di Maastricht, (1992) di privilegiare la dimensione economica, basata su stabilità dei prezzi, deficit di bilancio sotto il 3%, debito pubblico entro il 60% del Pil, porterà a sottovalutare i problemi che nasceranno dall’allargamento dell’Unione Europea a paesi dell’Est. Mancherà la riflessione sulle misure necessarie per sanare distanze economiche e istituzionali e far dialogare differenti eredità storiche, visioni culturali e memorie spesso incompatibili. Dopo la crisi finanziaria del 2008 si incrina la fiducia in un futuro comune, si rafforzano movimenti nazionalisti e populisti, e dopo il “terribile 2015” (crisi greca, emergenza migranti, terrorismo islamico) si diffonde anche il risentimento verso una “Unione matrigna”. Secondo Crainz le ultime emergenze, la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina, costringono a ripensare sia alla forza che ai limiti e alle questioni irrisolte dell’Europa. La decisione del 2020 di ricorrere al Recovery Found ha dimostrato l’importanza della solidarietà economica: se non si fosse fatta quella scelta, non scontata, le difficoltà europee sarebbero oggi certamente maggiori. Ritorna la domanda di fondo: quale Europa vogliamo costruire? E Crainz si chiede: quali sono le responsabilità e i compiti della cultura? Centrali saranno lecapacità di riflettere insieme sulle ferite, i traumi, le lacerazioni della storia europea.

A quelli che Crainz chiama “dialoghi difficili”. basati su memorie intossicate e vendicative e alle possibili alternative e soluzioni, viene dedicata la seconda parte del libro che affronta i nazionalismi e gli usi pubblici della storia ma anche i tentativi in controtendenza per costruire manuali di storia comuni, ad esempio un manuale tedesco-polacco e uno franco-tedesco. Nel corso e dopo la fine della Seconda guerra mondiale sono avvenuti in Europa processi di sterminio, trasferimenti forzosi di popolazioni, eliminazioni di minoranze che hanno cambiato il cuore di una Europa poliglotta, multietnica e multiconfessionale.
Questi processi hanno prodotto memorie intossicate e vittimistiche, annunciatrici di conflitti violenti. Un “dialogo di memorie” è possibile solo se si impara a capire, come dice Crainz, il dolore degli altri. Ma sembrano prevalere nella opinione pubblica scelte di chiusura e contrapposizione, alimentate da movimenti e governi nazionalisti e sovranisti. Particolare attenzione viene dedicata ad un tema: il diverso peso della Shoah e del Gulag nella storia del Novecento nelle memorie dei paesi europei. Nel 2005 viene istituita la Giornata europea della memoria della Shoah, nella data del 27 gennaio, nello stesso anno Lituania ed Estonia disertano le celebrazioni moscovite del 60° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. Per i paesi baltici la data non è una data da festeggiare, perché è l’inizio della dominazione sovietica. Secondo lo storico inglese Tony Judt il riconoscimento dell’Olocausto è il “biglietto di ingresso” per l’Europa, ma la consapevolezza dello stermino degli ebrei non è la stessa in tutta l’Europa. Nei paesi post-comunisti si tende a negare la centralità della Shoah per rimuovere la memoria della partecipazione di parte delle popolazioni di questi paesi ai crimini nazisti. Contemporaneamente si chiede al resto d’Europa il riconoscimento delle “immani sofferenze e ingiustizie” subite dalle nazioni rimaste al di là della Cortina di ferro. Ci sono stati tentativi di risposta: il Parlamento Europeo proclama nel 2009 il 23 agosto “Giornata Europea delle vittime del nazismo e del comunismo” (è la data del patto Molotov-Ribbentrop) ma questa data è ignorata in occidente. È un chiaro esempio della difficoltà dell’Europa nel fare i conti con le sue differenti memorie.

Quello che accade in molti paesi europei, a partire dalla Russia di Putin, ma anche in Polonia, Ungheria, in Slovacchia in Romania, in tutti i paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia è l’uso della storia nelle scuole per animare un “patriottismo attivo” che nega le responsabilità storiche del proprio paese, esalta le virtù nazionali e ripropone la dicotomia “noi e gli altri”. La situazione è grave e preoccupante, nelle scuole può portare a cristallizzare differenti letture del passato, che renderanno difficile per gli studenti ragionare criticamente e partecipare ad un comune progetto europeo di società aperta, inclusiva e postnazionale o transnazionale. Si può arrivare a casi limite come, in Lettonia e in Estonia, ad un sistema scolastico separato per i numerosi russofoni.

Che cosa può fare la cultura? Crainz, nell’ultimo capitolo (Insegnare in Europa) individua due possibili percorsi che si contrappongono a questa deriva. Uno è legato al tentativo di creare manuali di storia con testi sintetici ed essenziali con documenti capaci di mettere in comunicazione prospettive molteplici, utilizzabili da paesi diversi, come il testo tedesco- polacco e quello franco-tedesco. Nel manuale tedesco-polacco ad esempio si affronta il tema particolarmente divisivo, delle espulsioni delle popolazioni di lingua tedesca dai territori riconosciuti polacchi dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Non è facile la produzione di questi testi, che permettono la riflessione sulle differenti memorie, e la situazione è resa più complicata dal fatto che con l’immigrazione diventa anche importante la presenza in Europa di cittadini europei (o in attesa di diventarlo) che sono portatori di memorie diverse da quelle europee.
Un’altra possibilità è legata ad un diverso modo di fare storia, guardando al lungo periodo e facendo storia non di guerre ma di civiltà e di scambi e di debiti nei confronti degli altri. Crainz ama citare Stefan Zweig che negli anni trenta del secolo scorso proponeva una storia della civiltà, frutto del contributo dei diversi popoli e della circolazione delle conquiste del sapere come unica possibilità per sconfiggere i virulenti nazionalismi. Ci sono ricerche storiche che vanno in quella direzione, e vengono citati esempi nei paesi balcanici dove la questione dei confini “sfuggenti” e delle diverse memorie è particolarmente complessa.
Qui si lavora sui diversi modi di leggere gli imperi bizantini e ottomani per arrivare fino ad oggi, Ma di questi tentativi si parla poco. Anche nell’Europa occidentale l’insegnamento della storia presenta molte criticità, viene citata una ricerca sui manuali (Pingel, Nazioni ed Europa nell’educazione scolastica, Fondazione Agnelli, Torino 2003) in cui si afferma ”L’Europa viene vista fondamentalmente dalle varie prospettive nazionali”. La ricerca risale al 2003, ma la situazione non è molto cambiata. Si aggiunga a queste difficoltà il fatto che l’insegnamento della storia oggi appare poco importante rispetto a quello di altre discipline, e su questa trascuratezza e alle gravi conseguenze che può avere hanno scritto cose molto significative, in difesa della storia e contro la rassegnazione all’oblio, storici come Adriano Prosperi e Massimo L. Salvadori. Nonostante questi limiti e contraddizioni secondo Crainz (autore con Angelo Bolaffi di un calendario civile europeo) l’insegnamento della storia deve e può svolgere un ruolo centrale nella formazione di una rete culturale e civile transnazionale, che possa portare ad una opinione pubblica europea, “elemento fondamentale per dar corpo ad un futuro comune”. Non si tratta di aggiungere pagine ai manuali, ma di ripensarli radicalmente.

Raccomandiamo questo libro di Crainz a tutti gli insegnanti di storia.